Il libro di Alberto Grandi, Denominazione di Origine Inventata in realtà nobilita la nostra storia gastronomica, arricchisce la nostra cultura.
Il prof. Grandi nel suo libro Denominazione d’Origine Inventata – DOI, il cui acronimo riprende per assonanza alcuni di quelli di protezione d’origine oggetti delle sue osservazioni, da grande storico della gastronomia qual è, espone una notevolissima serie di case history di prodotti italiani confutandone la “tradizionalità antica” vantata.
Il suo stile sempre frizzante, scorrevole è quasi affascinante e molto oggettivo nel perseguire il suo obbiettivo, ben dichiarato, di riportare rigore nei vanti di origini nobili dei vari prodotti trattati.
Ne esce un testo molto gradevole che può essere letto tutto di un fiato, come ho fatto io, senza avvertire ne stanchezza ne noia anche se molti dei vanti storici criticati sono, ovviamente, quasi scontati ed indiscutibilmente senza una vera possibilità di essere credibili e tantomeno comprovati.
Quello che, però, rimane nel lettore non è una sorta di repulsione e sdegno per i mezzucci, malamente documentati, utilizzati per affermare l’indimostrabile, ma una grande ammirazione per l’evoluzione che il settore agroalimentare è riuscito ad esprimere sia in alcuni contesti storici che specialmente più recentemente.
Infatti l’Autore riconosce che la nostra gastronomia ha avuto un grande ruolo a livello continentale nel rinascimento anche se poi ha subito un periodo in cui la cucina francese ci ha oscurato in contemporanea alla decadenza politica del nostro Paese, a riprova che la gastronomia di alto livello e il potere vanno a braccetto.
Un concetto che emerge in sintesi è che i prodotti della nostra gastronomia, come li ha conosciuti la mia generazione (sono un boomer) e quelle seguenti non sono frutto di storia antica ma il risultato di una recente evoluzione che ha generato una bellissima realtà che è l’attuale situazione gastronomica del nostro Paese.
Anzi, mi ha aiutato a correlare una serie di notizie a di evoluzioni che hanno interessato le nostre grandi aziende agroalimentari, compresa l’assoluta insipienza dei nostri governi, almeno quelli degli ultimi cinquant’anni, a proteggere tale patrimonio che è oggi in gran parte in mani straniere, facendo rifiorire o meglio proliferare i prodotti tipici locali artigianali.
Quello che non traspare è l’invito, oggi, a sostenere tali prodotti con una seria proiezione verso i mercati stranieri dove i prodotti alimentari italiani hanno un’aurea ed un appeal innegabile.
D’altra parte l’Autore ha correttamente e giustamente si ridimensionato lo stupido tentativo di inventarsi nobili (?) o almeno storiche origini per i prodotti che hanno, si una grande tradizione, anche se più recente.
In effetti tradizione gastronomica forse vuol dire capacità di elaborare e fornire delle preparazioni che nella loro variabilità (le materie prime della ristorazione NON sono standardizzate) siano in grado non solo di soddisfare ma spesso di stupire il cliente a cui, forse, le “favolette” duramente criticate dall’Autore sono solo un di più che non può migliorarne il sapore.
E se, senza dubbio, la nostra cucina presenta una variazione di gusti e sapori che non ha uguali al mondo è il risultato di una cultura gastronomica e conoscenza della materie prime che ci contraddistingue e spero continui a distinguerci nel futuro in spregio a fast food, farina di grilli ed altri fenomeni che sono certamente estranei alla nostra tradizione gastronomica.
D’altronde, è forse utile ricordare che la “tradizione” di Babbo Natale così come lo conosciamo non solo è figlia del marketing di una grande azienda di bibite gassate ma risale solo agli anni 30 (creato qualche anno prima aveva il vestito verde!), ma questo ai bambini non importa, come non credo che infici il nostro personale orgoglio per la gastronomia italiana sapere che la maggior parte dei prodotti non derivano ne da ricette dei romani ne, tantomeno, da quelle di etruschi o vulci.
E non mi sento deprivato di un grande prodotto, indubbiamente già conosciuto e utilizzato sicuramente in epoca romana, il Garum, fatto con visceri di pesce e pesce salato fatti fermentare, la cui mancanza, tra i nostri prodotti tradizionali, non mi angoscia assolutamente.
Resto comunque in attesa delle altre opere del Prof. Grandi auspicando che siano in formato digitale come quello oggetto del presente articolo e he avrei volentieri letto nella scorsa settimana in cui ero confinato in casa dal COVID.